domenica 24 luglio 2011

Ben venga luglio

In una quiete insicura che accarezza i momenti si rimane seduti a cercare, a provare.
Ho come l'impressione di avere una grande stazione ferroviaria dentro di me.
Passeggeri e bagagli, binari, treni veloci, superveloci, treni in ritardo. Treni che passano e non tornano. Treni che si fermano e le porte non si aprono.
Ci sono treni silenziosi. Sai che ci sono, non fanno rumore.
Passano vicino, lentamente.
Poi ti giri e vedi che sta fermo lì, al primo binario. Ti accorgi dei nuovi posti che ha attraversato, dei nuovi passageri, dei nuovi bagagli.
Chiedi permesso per entrare, dai il benvenuto a chi è in viaggio.
Poi lo lasci andare, perchè quel treno ha degli orari definiti che è meglio far rispettare.
Lo saluti quel treno e nel cuore vive il ricordo dei viaggi vissuti insieme.
Va via senza far rumore, sprigionando un'aria buona, nuova.
E si rimane seduti a cercare, a provare, in un macigno di ricordi sospesi.
Ci scappa un sorriso. Ben venga che nessuno lo vedrà.

sabato 23 luglio 2011

"Vuoi il caffè?" - "Sono in bagno" - "Lo so."

Ora il corridoio di casa mia è libero, ma una volta era tagliato in due.
A spezzare lo spazio era una enorme porta in stile cinese.
Vetri spessi, fiori colorati, una mitragliata negli occhi. La vecchia che abitava qui prima di me mi disse che io la porto via, un' ti pensà che te la lascio!
Signora, la prego.
Quella signora, vedova, meritava il rispetto decisamente in altre forme. Bastava il fatto che avesse due figli di cinquant'anni handicappati, cresciuti con un marito cieco. Le si può perdonare di aver tirato su un muro nella stanza più grande della casa creando uno stanzino piccolo e inutile e di aver messo la cucina sul balcone chiuso. Balcone/cucina direttamente comunicante col bagno con una finestra.
Non si sa mai, uno sta seduto sul cesso e può comunicare con chi cucina e viceversa.
Le necessità dei figli e di doverli lavare seduti sulla carrozzella ha fatto in modo che la doccia fosse praticamente un'altra stanza. Ogni tanto me la immagino, quella vecchia. Non so che fine abbia fatto, so che uno dei figli è morto e l'altro era su quella strada. Ci penso, in quella doccia, e nel vapore dell'acqua calda si respira il ricordo tiepido di quella fatica.
A volte rivedo anche la porta cinese.
Cristo, se era brutta.

mercoledì 20 luglio 2011

Bisogna aspettare

Bisogna aspettare
di guardare il proprio riflesso
nell'anta aperta della finestra
per capire come l'amore
tiri fuori la parte peggiore
del nostro egoismo.

lunedì 18 luglio 2011

Binario 27

Seduto per terra alla Stazione Termini.
La schiena appoggiata alla vetrina del chiosco di non so quale marca di gelati, addento un  panino con cotolettaverdureemaionese. Ho preso il menu con patatine e coca cola. Le patatine non mi vanno. Il mio sguardo attraversa le centinaia di gambe di donne e uomini che vagano in tutte le direzioni. Il mio sguardo non cerca niente, ma trova. Un bambina tira la mano della madre indicando verso di me, credo che volesse in realtà indicare i gelati. La madre guarda me e le strattona il braccio dicendo cammina e non guardare. Sullo schermo le persone comprano quello che vogliono grazie ai prestiti. Nelle stazioni c'è troppo rumore per capire cosa esce dagli schermi, non senti una parola. Puoi solo guardare. Guardi le persone felici. Grazie ai prestiti hanno tutto quello che vogliono. Io non trovo un pezzo di cotoletta che pensavo di addentare. Mi rifugio nel tabellone delle partenze. Il mio treno ancora non c'è. Ho perso il treno che dovevo prendere, me lo merito. Tendo a darmi la colpa a prescindere, ultimamente. Sullo schermo scorrono le notizie. Edoardo Nesi ha vinto il Premio Strega 2011. Non ho mai letto nulla di lui. Non ho mai letto nulla di molti. Riguardo il tabellone, il mio treno non c'è. Ma non c'è bisogno. Il regionale per Pisa parte sempre dal binario 27. Finisco il panino. Regalo le patatine al tizio che sbirciava nella spazzatura. Mando un sms da una cabina telefonica e vado a giocare l'enalotto. Mi avvio verso il binario e mentre penso ad Anna Karenina due belle ragazze dalla pelle scura e dai vestiti leggeri  camminano verso di me e ridono a squarciagola. E' un pensiero scontato, fate bene a ridere. Arrivo al binario e compro una lattina di moretti e La Repubblica. Mi siedo sulla panchina di marmo e sfrutto entrambi gli acquisti. Al binario 26 il treno per Fiumicino parte e una ragazza obesa con due trolley lo perde col fiatone. Seduti sulla panchina opposta alla mia una ragazza fa una foto nella mia direzione, poi abbraccia il ragazzo e si fanno una foto da soli. Leggo L'amaca di Michele Serra e guardo un aereo sfrecciare tra le nuvole e il cielo. Che bel silenzio che si porta dietro.
Ne vorrei un poco anche io.


"Allora il cielo ed io siamo in aperto colloquio,
e sarò utile il giorno che resto sdraiata per sempre:
finalmente gli alberi mi toccheranno, i fiori avranno tempo per me."
[Sylvia Plath] 















provino a contatto by www.albertomartini.com

venerdì 15 luglio 2011

Specchiamoci

Riflessioni degli ultimi giorni, esplose durante la digestione.
Alla luce di una nuova luce che si infiltra timida in camera mia chiedendomi il permesso, mi guardo attorno.
Spostare i mobili nella stanza che per otto anni ha assistito ai tuoi deliri è una discreta esperienza. Come anche quella di pulire la libreria e riordinare i libri secondo un possibile ordine ossessivo/compulsivo. I beat coi beat, tutti e trentuno i libri dello zio Hank e dopo tutti e nove i libri di John Fante e dopo direi che i due romanzi di Cèline van bene. Gli americani insieme, Hamingway e Faulkner litigano al piano di sotto, e sotto ancora tutta la filosofia, e sotto ancora la telecamera e la vecchia Canon di Papà vicino a spartiti e fumetti. E poi i poeti tutti in un unico piano, sembrano un gruppetto che sussurra ma cosa cazzo vuole quello la, che cosa pensa di fare.
E poi i cd, tutti i De Andrè, ma si mettiamoli vicini ai libri su De Andrè. E poi il cantautorato americano sgomita lì vicino, e tutti i Tom Waits, e vai tranquillo amico mio, il Live In Volvo di Capossela lo metto da un'altra parte. E poi il jazz, e i masterizzati alcuni li butto, altri ma si, qualche volta potrei aver voglia di sentirli. E poi il rap, i dischi degli amici e i dischi che se fossi capace di usare Ebay venderei a pacchi. Spuntano fogli tra i cd, biglietti dei concerti, Charlie Brown lo metto vicino a Shakespeare, tra l'Amleto e La Tempesta. Spuntano vecchie letterine scritte da chi ora è lontano una vita, più di una vita e non solo la nostra. E i preservativi scaduti. E la foto di me che guardo trasognante Lisbona dall'alto a 18 anni. Mia madre la guarda e dice che bello che eri. E leva via la polvere. E mi ruba Carofiglio.
Ho spostato gli armadi. E poi i muri son bianchi. Troppo.
Ho spostato il letto. Ora c'è pù spazio.
Sembra un'altra stanza. Sarà la luce. Sarò io.
Domani prendo il treno e vado a festeggiare la laurea di un amico. Psicologia.
Devo proporgli uno studio. Mostrami la tua libreria e ti dirò chi sei.
Voglio essere il primo in analisi, come disse lo studente di ingegneria al primo anno con manie di protagonismo.
Ecco, questa me la potevo risparmiare.






mercoledì 13 luglio 2011

Come si pensa nei sogni

Racconto il sogno di stanotte.
Ero in un campetto di basket di quelli che vedi nei film ambientati nel bronx, un vero playground.
Il contorno una murata di graffiti di media bellezza, quelli che forse sono i migliori, quelli che ti ricordano le origini del writing. Non ne distinguo i colori.
L'intera visuale è in bianco e nero. Ogni cosa.
Attorno al campetto solo il cielo stellato, tutto il cielo stellato. Senza luna.
Al centro del campetto c'è un bambino, seduto a gambe incrociate con un pallone da basket in grembo. Indossa una tuta chiara e tiene un cappellino all'indietro sui capelli chiari e arruffati. Ha gli occhi piccoli e neri.
Mi siedo di fronte a lui, al centro del campetto, circondati dai graffiti, sotto il cielo e le stelle.
Non diciamo niente.
Mi sorride. Guarda in alto. Poi ancora me.
Mi sorride.
Ola, mi dice.
Sorrido.
Ciao, gli dico.
Non diciamo niente.
Mi guarda curioso. Allunga una mano, mi tocca la barba. Sorride.
Dibùjame un cordero, mi dice.
Non capisco. Lo guardo.
Por favor ... dibùjame un cordero....
Penso. Come se nei sogni si pensasse. Penso come si pensa nei sogni.
Mi tocco la tasca, non c'è la tasca. C'è il mio borsello. Guardo dentro, c'è il mio taccuino e la penna. Li prendo.
Faccio quello che mi ha chiesto di fare.
Strappo il foglio e glielo do.
Gracias... es pequeño! .... en mi casa todo es pequeño!
Lo so, gli dico.
Sorride. Io sorrido.
Sicuri che io e te non ci siam già visti?
Adiòs, mi dice sorridendo. Poi riguarda il foglio.
Adiòs, gli dico io.
E vado a preparare il caffè.



lunedì 11 luglio 2011

Faber a François

" ... E poi dove fuggire? Ormai si sa tutto di tutti: un mobile iridescente ci informa ogni giorno ed in tempo reale, come si usa dire, sul dolore, sulla vergogna, sul fragoroso germogliare dei grandi riti e sulla fame. Si sa tutto di tutti senza capire niente di niente perchè nessun obiettivo è capace, come lo erano i tuoi occhi, di trasformare l'emozione nella nostra stessa carne, così che tutto scorre e si mescola e non rimane che un confuso rumore di fondo, poco più di un ronzio. "


Tratto dall'introduzione di Fabrizio De Andrè alle Poesie di François Villon.
Tratto significativo per saperci guardare un po' meglio attorno. E la poesia aiuta.
E Faber lo sapeva bene.

 

domenica 10 luglio 2011

Anche adesso

La domenica mattina in Piazza delle Vettovaglie. Ore 9.30.
Il sole addosso con un caffè shekerato. Una sola bancarella di vestiti all'attivo.
Al tavolino di fianco un uomo col berretto bianco fissa la colonna davanti a sè.
Credo sia un residuo della notte.
Il caffè shekerato non è un granchè.
La piazza non parla, la casa con gli occhi mi fissa.
Ricordo la notte in cui ci ho dormito. Amava Rilke ed era matta come un cavallo.
La piazza è deserta, e io ho il sole addosso.
Ricordo un natale, con due amici. Stesso tavolino.
Piazza deserta, era sera, solo le decorazioni a illuminarci.
Certo che sta piazza sa essere bella, dissi.
Mi presero per il culo per un anno.
Domenica mattina.
La piazza è deserta, il caffè shekerato è finito, l'uomo col berretto bianco è andato via.
Certo che sta piazza sa essere bella, penso.
Anche adesso che il sole brucia e ho le mani e il cuore sudato.
Anche adesso che è presto ed è ora di andare via.



giovedì 7 luglio 2011

La solita mente

La terra è calpestata da zampe di rabbia
che lasciano orme indelebili
è una gara alla sopravvivenza per il toro
per l'uomo è un'adrenalina ereditata

osservo da appena dietro la barriera
e aiuto un uomo a salire mentre il toro gli passa accanto
il sole asciuga tutto l'alcool che mi han buttato addosso,
ma non c'è poi così caldo,
tutto questo calore non c'è

solitamente non mi faccio le foto da solo
solitamente non mi faccio le foto
solitamente esco male nelle foto
solitamente esco


Andare per vivere

Maria prepara la sua sigaretta con le sue mani leggere e sottili.
Ad Alcalan De Henares l’aria è ferma, il caldo accarezza le piante e il suo vecchio cane non riesce a dormire.
Maria ha i capelli grigi e corti di non segue una moda, ma di chi ha conosciuto la verità di una lunga malattia. Lei è leggera, sottile. I suoi occhi sono grandi e azzurri.
Mi guarda come se fossi suo figlio mentre mi versa altro caffè e mi racconta della rivoluzione.

Per tre giorni – mi dice – per tre giorni mia madre si chiedeva dove fossi, non sapeva se fossi morta, se i miei figli che tenevo per mano protestando por la calle fossero morti.
Ero una rivoluzionaria, maurizio, perché volevo che  Ceausescu sparisse, volevo la libertà per me e per i miei due figli.

Nel 1989 il figlio maschio di Maria aveva 9 anni e la pequena appena 1.
Ora loro parlano uno spagnolo fluido e si sono costruiti una vita qui, ad Alcalan De Henares.
La casa nativa di Cervantes dove su una panchina la statua di Don Chisciotte rimprovera quella di uno zittito Sancho Panza.

Lo spagnolo di Maria è lento ed efficace, poche e chiare parole fanno in modo che quando lei mi chiede entiendes, maurizio? io le risponda claro que si.

Ero una rivoluzionaria.
E che cosa ho avuto in cambio? mi chiede.
Maria alza le dita per virgolettarmi nell’aria la parola democrazia.
Spiegamelo tu, maurizio, cos’è la democrazia. Se ti guardi attorno quella che vedi è democrazia?
Se al posto di un dittatore c’è un politico incravattato che pensa ai suoi interessi mentre nella società o sei ricco o sei povero, e ti posso assicurare maurizio, i ricchi sono ben pochi.
E il paese scende, va sempre più abajo, va sempre più giù.
Come tutta l’Europa.

Io le racconto dell’Italia e lei sa tutto e sa come ci si può sentire.
Sa cosa vuol dire la parola che viene tolta, sa cosa vuol dire la repressione in entrambe le sue forme.
La repressione senza veli, senza vergogna, col manganello.
La repressione velata, ironica. La repressione educata e truccata.

E allora.
Allora meglio andare in un altro paese.
In un paese dove appena sentono la tua lingua si girano dall’altra parte dopo averti detto quanto tu es guapa.
Meglio andare via da un paese dove volendo posso vivere comoda, con case grandi, con tutte le comodità, dove tuo marito ha un lavoro sicuro, dove posso stare tutta la vita senza lavorare.
Meglio andare in un paese dove devo ricominciare e soffrire per far andare i miei figli avanti con i loro desideri. Pagando un mutuo, continuando a lavorare anche adesso quando il mio corpo me lo permette.

Il suo vecchio cane è sotto il tavolo, mentre lei mi parla lui mi lecca le dita dei piedi.
Io faccio finta di niente.
L’aria è ferma ad Alcalan De Henares. Il caos di Madrid è a due passi.

Le chiedo quanto sia giusto andare via.

La tua terra – mi dice – la tua vera terra è quella che dal sudore della tua fronte ti restituisce quello che ti meriti. L’amore per la famiglia rimane nel tuo cuore e da lì non se ne andrà mai.
Ma sono le tue mani e il tuoi occhi a dirti dove devi andare per vivere.

Attenzione.
Non andare a vivere.
Andare per vivere.

sabato 2 luglio 2011

Le cronache di Soria

Verso le 16 si sente una voce uscire da un megafono.
Sembra la sveglia della siesta. Come c'e' anche una sveglia mattutina. Immaginate un'orchestra che alle 9 gira per le strade con tamburi e fiati di ogni tipo suonando canti che vagano a meta' strada tra il tango e il punk.
Io mi sono svegliato, poi il sonno si e' conciliato. I miei compagni di fiesta emanavano il doposbronza nel loro sonno a bocca aperta sul divano. Passano 24 ore a bere cocacola mischiato a un vinaccio tipo tavernello.
Qui la mia salvezza si chiama caña e il prezzo per vivere e' di un euro e venti. Con un pezzo di pancetta fritto con formaggio e' la colazione dei campioni.
Per venire incontro al mio italiano mi dicono e' un mondo difficile e una vita intensa.
Sara'. Ma la siesta sta finendo.
E qui di pause ne ammettono poche.